<<È a Revignano d’Asti che ho assorbito tutto l’amore per la campagna, la natura, la vita e la cultura contadina>>

Questa settimana Sistema Monferrato vi accompagna in un ricordo delle estati di De Andrè nelle campagne astigiane. Il racconto tratto da “Vita di Fabrizio De Andrè” è un estratto del volume “ViA(E) del Piemonte, dai Navigli alla Provenza lungo le antiche vie romane” edito da Editrice Omnia.

 

<< Mastica e sputa

Da una parte il miele

Mastica e sputa

Dall’altra la cera

Mastica e sputa

Prima che venga neve

 

Luce luce lontana più bassa delle stelle

Sarà la stessa mano che ti accende e ti spegne

Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena

Un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena

E se lo sa mio padre dovrò cambiar paese

Se mio padre lo sa mi imbarcherò sul mare

 

Mastica e sputa

Da una parte il miele

Mastica e sputa

Dall’altra la cera

Prima che venga neve>>

(Ho visto Nina volare – Fabrizio De Andrè)

 

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Alla fine della scuola, tutti gli anni, facevamo il mese di mare ai bagni San Nazzaro, un mese di campagna a Revignano d’Asti e infine si andava in Val Susa in un posto che si chiamava Piano della Mussa!

Della mia infanzia ricordo soprattutto la casa di campagna di mia nonna, una cascina: allora le vacanze estive duravano quattro mesi, ma è a Revignano d’Asti che ho assorbito tutto l’amore, che poi mi è rimasto, per la campagna, la natura, gli animali, la vita e la cultura contadina.

La campagna, se l’ami, ha benedizioni e anche insidie, ma incolpevoli. Non per niente ci sarei tornato ogni estate, per una fila interminabile di estati, a dormire nella stalla, a giocare con i vitelli, a correre tre i boschi e i prati delle mie paure bambine. E a trentacinque anni mi sarei trasferito in Gallura non per fuggirla ma per ritrovarla. L’erba, il fieno, la terra, quel tipo di luna molto meno diafano, molto più carnale di quella che ci appare in città, tra lo smog di Milano. E gli stronzi di vacca che diventano legno, sotto il sole. E il dialetto, che rende più saporite anche le bestemmie, e più limpide.

Avevo quattro anni e stavo sempre dai contadini: assimilavo molto più da loro che dai miei genitori. Ero in mezzo alle bestie, volevo bene sia ai contadini sia alle bestie, ci stavo bene, li sentivo parte di me, più veri.

Non c’era il trattore – veramente una fatica disumana – e dalla simbiosi delle due fatiche derivava il grande rispetto dell’uomo nei confronti dell’animale, delle vacche, dei buoi che tirano i carri, gli aratri, gli erpici. Mi ricordo che Emilio il bastone lo usava proprio una volta ogni tanto. Era una brava persona, oltre che un buon contadino, piuttosto taciturno, tranquillo, uno che se ne stava per i fatti suoi, ma quando parlava non era per perifrasi.

Mi ricordo anche di Pasquale che dava di matto perché si “imbriacava”, prendeva l’ascia e andava nel cortile e ce l’aveva con i tedeschi, con tutti. Ogni tanto lo trovavano nel rio o nei fossi.

Nelle canzoni che poi ho scritto ci sono dei ricordi affiorati, quando emerge qualche riferimento alla natura, che adesso non saprei descrivere in maniera circostanziata: ci sono riferimenti che nascono da lì, da quei tempi e da quei luoghi. E’ un tutt’uno: un’emersione dalla memoria.

Nell’estate del 1950, terminata la quarta elementare, Fabrizio De Andrè trascorse l’ultima vacanza alla Cascina dell’Orto. Il “professore” aveva infatti deciso di vendere il cascinale e di acquistare un appartamento ad Asti, in via Carducci 6, nel quale sarebbe andata a vivere la madre Rita. La nonna Margherita e lo zio Francesco si erano da poco trasferiti a Torino.

Fabrizio soffrì moltissimo, perché a quel posto erano legati i suoi più bei ricordi d’infanzia. Il padre e la madre gli promisero che sarebbe tornato in campagna. Dentro di sé decise che, una volta diventato grande, avrebbe ricomprato quel cascinale e che non avrebbe abbandonato quei luoghi che tanto amava. Quel desiderio lo accompagnò negli anni successivi tanto che non mancò di confidare ai suoi amici il desiderio di un’azienda agricola tutta per sé>>.

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